Documents - 2 citing "Sentenza Corte di Cassazione n 21086 del 2005"

pubblicazione della sentenza, contraffazione, concorrenza sleale, marchi, inibitoria, rischio di confusione, rischio di associazione, uso del segno, pubblico interessato, diritto esclusivo, pubblicità, buona fede, corrispondenza commerciale, marchio registrato, notorietà, particolare del marchio, divieto
Siffatta scelta può determinare innanzitutto ex art. 20 lett. b) CPI un rischio di confusione sulla provenienza dei beni, anche e soprattutto sotto il profilo del rischio di associazione, inteso come probabile errore del pubblico circa l’ esistenza di rapporti contrattuali o di gruppo fra il titolare e il secondo registrante. [...] Le norme comunitarie (e poi quelle nazionali) hanno inteso tutelare il diritto esclusivo sul segno come elemento attrattivo e comunicazionale, impedendone l’ appropriazione ogni volta che questa possa determinare, in via alternativa, un indebito vantaggio per l’ usurpatore o in pregiudizio al titolare. Esistono vari livelli di rinomanza, che va dai segni noti alla generalità della popolazione a quelli solo largamente accreditati presso un segmento del pubblico dei consumatori, cui si accompagnano diverse estensioni della tutela, al di là dell’ ambito merceologico e del rischio di confusione in senso stretto (dovendo ritenersi sufficiente un ingiustificato agganciamento, che consenta di collocarsi sul mercato sfruttando le valenze evocative del segno rinomato). Il diverso livello di rinomanza incide sull’ onere della prova, ben potendo -in caso di segni notori, quali quello che ci occupa- farsi ricorso anche alle nozioni di comune esperienza. Infine, va ricordato che, per il principio di unitarietà dei segni distintivi di cui all’art. 22 CPI è vietato adottare come ditta, denominazione o ragione sociale, insegna o nome a dominio aziendale un segno uguale o simile all’altrui marchio se possa determinarsi quel medesimo rischio di confusione del pubblico o quell’approfittamento, con conseguente pregiudizio, di cui all’art. 20 CPI. [...] L’accordo transattivo deve essere interpretato secondo le regole di cui all’art. 1362 e segg. c.c., ricordando che i criteri legali di ermeneutica contrattuale sono governati da una gerarchia interna. [...] Spetterà quindi alle odierne parti attrici, in caso di contestazione, offrire la rigorosa prova che in quella specifica circostanza non era possibile, per la normativa specifica di settore, utilizzare altra indicazione, quali appunto i marchi, che comunque consentisse di risalire all’impresa produttrice/commercializzatrice. Certamente, la generalità dell’uso di una denominazione sociale così interferente non può farsi discendere in via generale dalla normativa del Codice del Consumo (D. lvo 206/05), in particolare gli artt. 6 e 22, laddove si prevede il contenuto minimo della comunicazione che i consumatori devono ricevere. Infatti, le disposizioni richiamate equiparano il marchio alla ragione sociale del produttore e tale indicazione è sufficiente ad evitare l’ingannevolezza di cui all’art. 22, contenendo tutte le informazioni rilevanti di cui un consumatore medio ha bisogno per prendere una decisione consapevole. [...] Anche l’utilizzazione della ragione sociale del produttore e/o commercializzatore sui siti di titolarità degli attori deve essere fatta al mero fine di informazione nel contesto di una descrizione narrativa dei prodotti forniti e della loro origine produttiva, senza il ricorso a caratteri speciali o di particolare evidenza e sempre accompagnata dal chiarimento, come indicato nell’accordo al punto 7, che non vi sono rapporti con la GV s.p.a. Va infine chiarito, come l’accordo autorizzi solo l’uso della denominazione sociale, dovendo ritenersi esclusi gli altri usi interferenti indicati dall’art. 22 CPI, quali la ditta, l’insegna, il nome a dominio aziendale. [...] Siffatto uso della denominazione della ricorrente, il cui cuore identificativo è certamente rappresentato dal patronimico VERSACE, eccedeva certamente le esigenze di rispetto della normativa comunitaria e di quella posta a tutela dei consumatori, al fine di rendere identificabile il produttore, e rappresentava una forma di utilizzazione quale segno distintivo in senso stretto, in contrasto con gli accordi transattivi invocati, come tale da ritenersi di natura contraffattiva ex art. 20 lett. b) e c) CPI.[...]
vendita, marchi, marchio registrato, concorrenza sleale, risarcimento dei danni, danno morale, corrispondenza commerciale, contraffazione, titolare del marchio, rischio di confusione, rischio di associazione, pubblico interessato, diritto esclusivo
In assenza di tali soggetti, l’ art. 145 c.p.c. non autorizza la notifica nelle forme di cui all’art. 140 o 143 c.p.c., imponendo la notifica alla persona che abbia la rappresentanza legale, nelle forme di cui agli artt. 138, 139 e 141 c.p.c. [...] Tale rischio risulta amplificato dalla presenza di arredi e modulistica esclusivamente riferiti al marchio attoreo, che inducono a ritenere tutti i prodotti esposti come espressione della medesima fonte imprenditoriale o di un rapporto di licenza concesso dall’ odierna attrice. Invero, la semplice esistenza del cartellino prezzo e della targhetta interni, con il segno dell’effettivo produttore, non esclude siffatto rischio di confusione e di associazione, ben potendo, come detto, essere percepito solo come espressione di diverse denominazioni di linee stilistiche destinato a contrassegnare altre camicie del medesimo produttore. [...] Ci si trova quindi di fronte ad una palese violazione dei diritti della titolare del marchio ex art. 20 CPI, inteso tanto nella sua principale funzione di indicatore di origine, che come veicolo di un messaggio ai consumatori. In proposito, pare al Tribunale che sia necessario riguardare al segno non sotto il profilo della lecita privativa conferita nei confronti dei concorrenti, ma sotto quello (ormai preponderante) di strumento di comunicazione e di relazione tra il titolare ed il pubblico dei consumatori. Accanto alla tradizionale funzione di indicatore di origine, il marchio ha infatti una funzione “pubblicitaria”, che veicola informazioni sull’ immagine, qualità e reputazione dell’ impresa, dei suoi prodotti e dei servizi che è in grado di fornire alla clientela, garanzia di determinati standard produttivi e commerciali (funzione che viene lesa in caso di usurpazione, indipendentemente dalla presenza nei prodotti resi confondibili di analoghe qualità in concreto). Siffatte considerazioni, esimono dall’esame approfondito del profilo di violazione dell’art. 20 lett. c) CPI, sul presupposto che le modalità di commercializzazione prescelte dalla convenuta le consentirebbero di trarre indebitamente vantaggio dalla rinomanza dei segni dell’ attrice e contemporaneamente ne pregiudicherebbero la forza distintiva e la capacità di essere portatore di un messaggio rilevante nel giudizio del pubblico (che non si esaurisce nella sola indicazione di origine), sfruttandone le potenzialità evocative. [...] Le norme comunitarie (e poi quelle nazionali) hanno inteso, come detto, tutelare il diritto esclusivo sul segno come elemento attrattivo e comunicazionale, impedendone l’ appropriazione ogni volta che questa possa determinare, in via alternativa, un indebito vantaggio per l’ usurpatore o in pregiudizio al titolare. Esistono tuttavia vari livelli di rinomanza, che va dai segni noti alla generalità della popolazione a quelli solo largamente accreditati presso un segmento del pubblico dei consumatori, cui si accompagnano diverse estensioni della tutela, al di là dell’ ambito merceologico e del rischio di confusione in senso stretto (dovendo ritenersi sufficiente un ingiustificato agganciamento, che consenta di collocarsi sul mercato sfruttando le valenze evocative del segno rinomato). La diverso livello di rinomanza incide sull’ onere della prova, ben potendo, in caso di segni notori, farsi ricorso anche alle nozioni di comune esperienza, mentre risulta necessario, a livelli più bassi di conoscenza del pubblico, fornire una prova più compiuta, attraverso indagini di mercato o dimostrando l’ entità della promozione pubblicitaria e la penetrazione della stessa. [...] Ai fini liquidativi va considerato che non risulta provata la durata della condotta illecita, posto che l’accertamento da parte dell’attrice è avvenuto nell’ottobre del 2011 e che l’esercizio è stato ceduto il 11/11/11 alla società della teste C (nè, al di là della legittimazione passiva, risulta contestato che, di conseguenza, la commercializzazione abbia mutato modalità). [...] Considerata la natura dell’illecito e la sua ridotta diffusione, non pare al Tribunale che debba essere riconosciuta anche il risarcimento in forma specifica rappresentato dalla pubblicazione della presente sentenza.[...]