Con particolare riferimento alla domanda di parte attrice relativa al risarcimento del danno sulla base della disposizione di cui all’art. 1226 c. c. , va rilevato come la tutela risarcitoria sia concepita nell’ordinamento quale strumento riparatorio rispetto a un pregiudizio patito a seguito di un comportamento contra ius. Essa ha dunque la funzione di tenere in salvo il titolare del diritto leso dalle conseguenze dannose cagionate dall’autore dell’illecito. In conseguenza di ciò, il risarcimento del danno patrimoniale non può prescindere dalla prova del pregiudizio patito e dalla sua riconducibilità causale alla condotta del soggetto autore dell’illecito. Un simile principio trova applicazione anche nell’ambito operativo della valutazione equitativa di cui all’art. 1226 c. c.. La ratio della disposizione infatti va individuata nella necessità di fornire uno strumento di chiusura del sistema per la quantificazione del danno, applicabile limitatamente a quei casi in cui lo stesso non possa essere provato “nel suo esatto ammontare”. Il mero richiamo a una presunta “difficoltà di provare e quantificare il danno” non può infatti valere di per sé solo a giustificare l’applicazione del criterio risarcitorio equitativo di cui all’art. 1226 c. c. , facendo la disposizione in esame unicamente riferimento all’eventualità che il danno non possa essere provato “nel suo esatto ammontare”.
contraffazione, concorrenza sleale, pubblicità, inosservanza, inibitoria, pubblicazione della sentenza, compenso, decadenza, risarcimento dei danni, ordine di ritiro dal commercio, uso di segno, rischio di confusione, divieto, principi della correttezza professionale
Certamente si tratta di un segno connotato da una rilevante espressività, che se non indica esclusivamente il prodotto in sè, ne è strettamente collegato, indicandone anche caratteristiche “celestiali”. Tuttavia la crasi tra “vino” e “divino” mantiene una sua qualche originalità che consente al termine in questione di acquisire una sufficiente distintività ai fini della sua registrazione. [...] • Ci si trova invero di fronte all’ipotesi, di cui all’art. 20 lett. a) CPI, di uso di segno identico al marchio per un servizio identico a quello per cui è stato registrato, che garantisce al titolare una tutela assoluta, a prescindere dal rischio di confusione. [...] • Ovviamente, per il principio di unitarietà dei segni distintivi di cui all’art. 22 CPI, il divieto di utilizzazione si estende anche all’uso come denominazione sociale (essendo evidente, anche per quello che si dirà in seguito) il rischio di confusione per il pubblico. [...] • Innanzitutto va ricordato come le informazioni in relazione a nome, fatturato ed esigenze (anche di modalità di contatto) della clientela, anche se non abbiano tutte le caratteristiche di cui agli artt. 98 e 99 CPI, rappresentano un importante patrimonio aziendale, la cui apprensione attribuisce al collaboratore infedele, che attui la sottrazione, un vantaggio concorrenziale assolutamente indebito, consentendogli innanzitutto di risparmiare gli enormi costi di acquisizione. [...] • Siffatta illecita operazione è stata evidentemente favorita, oltre che dalla scelta della denominazione sociale, dal alcuni accorgimenti di per sé non rilevanti quali ricorrere al medesimo trasportatore, (v. dep. C) onde favorire -al di là della confusione cui potevano essere indotti i clienti- una sensazione di continuità aziendale, che attribuisce indebitamente alla nuova società concorrente quelle caratteristiche di affidabilità ed aspettative (di servizio e vantaggi) necessarie a recidere qual rapporto di fidelizzazione su cui si fonda la redditività di imprese di vendite telefoniche o porta a porta, quale le due odierne contendenti. [...] • L’accertamento compiuto comporta altresì la responsabilità risarcitoria in capo alla convenuta, per la contraffazione del marchio e soprattutto per l’attività di acquisizione in blocco di risorse della concorrente e del conseguente tentativo di “storno” della clientela, finalizzata a coprire parassitariamente una fetta di mercato già acquisita dalla società attrice ed in esclusivo danno della stessa, in violazione del precetto di cui all’ art. 2598 c.c. [...] • Manca tuttavia la rigorosa prova di un nesso causale tra siffatta diminuzione di fatturato e gli illeciti compiuti da OS ai danni dell’attrice, ben potendo essere stato determinato da elementi esogeni, quali certamente la notoria crisi economica, che ha comportato la riduzione di spese, soprattutto voluttuarie, da parte delle famiglie. [...] • Pertanto il danno eziologicamente ricollegabile agli illeciti concorrenziali subiti da COP non può coincidere con un importo pari al fatturato perso all’esito della fuoriuscita, che può dipendere come detto da una molteplicità di fattori. Tuttavia un’organizzazione che subisca una condotta di ex dipendenti, con modalità così intenzionalmente dirette alla sottrazione di clientela si trova di fronte ad una situazione eccezionale, che richiede uno sforzo aggiuntivo, che le impone di utilizzare risorse non per la normale attività di acquisizione della clientela ed esecuzione dell’incarico, ma per rimediare ai danni causati dall’attività di disturbo nelle relazioni contrattuali ormai consolidate e per riacquistare l’accreditamento sul mercato. Per quanto non confermato testimonialmente avanti al giudice, pare presumibile quanto risulta da alcune lettere inviate dai venditori a COP, con richiesta di autorizzazione ad una campagna offerte e promozioni finalizzata alla riacquisizione o fidelizzazione della clientela (v. doc. 17). Siffatte emergenze di disagio imprenditoriale, assai superiore a quello di chi debba esclusivamente sostituire un dipendente-venditore che ha scelto di “mettersi in proprio”, rappresentano una “voce di danno” non facilmente dimostrabile (e tantomeno quantificabile matematicamente, neppure con l’ aiuto di un CTU) per la quale appare giustificato il ricorso alla valutazione equitativa ex art. 1226 c.c.[...]
pubblicazione della sentenza, contraffazione, concorrenza sleale, marchi, inibitoria, rischio di confusione, rischio di associazione, uso del segno, pubblico interessato, diritto esclusivo, pubblicità, buona fede, corrispondenza commerciale, marchio registrato, notorietà, particolare del marchio, divieto
Siffatta scelta può determinare innanzitutto ex art. 20 lett. b) CPI un rischio di confusione sulla provenienza dei beni, anche e soprattutto sotto il profilo del rischio di associazione, inteso come probabile errore del pubblico circa l’ esistenza di rapporti contrattuali o di gruppo fra il titolare e il secondo registrante. [...] • Le norme comunitarie (e poi quelle nazionali) hanno inteso tutelare il diritto esclusivo sul segno come elemento attrattivo e comunicazionale, impedendone l’ appropriazione ogni volta che questa possa determinare, in via alternativa, un indebito vantaggio per l’ usurpatore o in pregiudizio al titolare. Esistono vari livelli di rinomanza, che va dai segni noti alla generalità della popolazione a quelli solo largamente accreditati presso un segmento del pubblico dei consumatori, cui si accompagnano diverse estensioni della tutela, al di là dell’ ambito merceologico e del rischio di confusione in senso stretto (dovendo ritenersi sufficiente un ingiustificato agganciamento, che consenta di collocarsi sul mercato sfruttando le valenze evocative del segno rinomato). Il diverso livello di rinomanza incide sull’ onere della prova, ben potendo -in caso di segni notori, quali quello che ci occupa- farsi ricorso anche alle nozioni di comune esperienza. Infine, va ricordato che, per il principio di unitarietà dei segni distintivi di cui all’art. 22 CPI è vietato adottare come ditta, denominazione o ragione sociale, insegna o nome a dominio aziendale un segno uguale o simile all’altrui marchio se possa determinarsi quel medesimo rischio di confusione del pubblico o quell’approfittamento, con conseguente pregiudizio, di cui all’art. 20 CPI. [...] • L’accordo transattivo deve essere interpretato secondo le regole di cui all’art. 1362 e segg. c.c., ricordando che i criteri legali di ermeneutica contrattuale sono governati da una gerarchia interna. [...] • Spetterà quindi alle odierne parti attrici, in caso di contestazione, offrire la rigorosa prova che in quella specifica circostanza non era possibile, per la normativa specifica di settore, utilizzare altra indicazione, quali appunto i marchi, che comunque consentisse di risalire all’impresa produttrice/commercializzatrice. Certamente, la generalità dell’uso di una denominazione sociale così interferente non può farsi discendere in via generale dalla normativa del Codice del Consumo (D. lvo 206/05), in particolare gli artt. 6 e 22, laddove si prevede il contenuto minimo della comunicazione che i consumatori devono ricevere. Infatti, le disposizioni richiamate equiparano il marchio alla ragione sociale del produttore e tale indicazione è sufficiente ad evitare l’ingannevolezza di cui all’art. 22, contenendo tutte le informazioni rilevanti di cui un consumatore medio ha bisogno per prendere una decisione consapevole. [...] • Anche l’utilizzazione della ragione sociale del produttore e/o commercializzatore sui siti di titolarità degli attori deve essere fatta al mero fine di informazione nel contesto di una descrizione narrativa dei prodotti forniti e della loro origine produttiva, senza il ricorso a caratteri speciali o di particolare evidenza e sempre accompagnata dal chiarimento, come indicato nell’accordo al punto 7, che non vi sono rapporti con la GV s.p.a. Va infine chiarito, come l’accordo autorizzi solo l’uso della denominazione sociale, dovendo ritenersi esclusi gli altri usi interferenti indicati dall’art. 22 CPI, quali la ditta, l’insegna, il nome a dominio aziendale. [...] • Siffatto uso della denominazione della ricorrente, il cui cuore identificativo è certamente rappresentato dal patronimico VERSACE, eccedeva certamente le esigenze di rispetto della normativa comunitaria e di quella posta a tutela dei consumatori, al fine di rendere identificabile il produttore, e rappresentava una forma di utilizzazione quale segno distintivo in senso stretto, in contrasto con gli accordi transattivi invocati, come tale da ritenersi di natura contraffattiva ex art. 20 lett. b) e c) CPI.[...]
O circa l’opportunità di provvedere alla sua registrazione; in ogni caso pare effettivamente dirimente il fatto che la domanda di marchio avanzata dalla convenuta sia stata accolta positivamente dall’ Ufficio Italiano Brevetti e Marchi. [...] • Conseguenze in tema di nullità del marchio. [...] • Ai sensi art. 12, comma 1, lett. b) del D.lgs. 30/2005 “non sono nuovi e pertanto non possono costituire oggetto di registrazione come marchio di impresa i segni che, alla data del deposito della domanda siano identici o simili ad un segno già noto come marchio o segno distintivo di prodotti o servizi fabbricati, messi in commercio o prestati da altri, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza tra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni. " Nel caso di specie, il rischio di confondibilità è assoluto, stante l’identità del segno e del settore merceologico. [...] • Ai sensi dell’ art.19, comma 2, c.p. i. non si può ottenere una registrazione da parte di chi abbia proposto la domanda in mala fede. Tale requisito soggettivo evidentemente sussiste in colui che al momento del deposito della registrazione sia a conoscenza del precedente utilizzo di un marchio identico o simile da parte di altri; e nella fattispecie è pressoché impossibile dubitarne, tenuto conto degli stretti rapporti di parentela e societari fra i signori F e GO, la contiguità degli uffici commerciali delle due società e l’intera vicenda anteriore al giudizio e soprattutto della sostanziale ammissione degli intenti perseguiti esposta da parte convenuta in comparsa di risposta. § 6. [...] • La condotta dolosa così posta in essere da OMS integra altresì la fattispecie di concorrenza sleale confusoria per uso di segni distintivi idonei a produrre confusione con i segni distintivi altrui, e con i prodotti e l’attività di un concorrente, compiuto in violazione delle regole di correttezza professionale, e idoneo a danneggiare l’altrui azienda, anche con uno sviamento di clientela, ai sensi dell’ art.2598 c.c.. Sono stati dimostrati alcuni significativi episodi di condotte concorrenziali sleali con effetti distorsivi nei rapporti con la clientela. [...] • E’ solo il caso di aggiungere, per completezza, che la mera richiesta di prova contraria rispetto a specifiche e articolate deduzioni probatorie contenute nella seconda memoria istruttoria avversaria, relative a fatti propri della parte (e quindi in ipotesi conosciuti o conoscibili, se veri) non integra il requisito della specifica contestazione richiesto dall’ art.115 c.p.c., sì come novellato dalla legge n.69 del DD. MM.2009, perché il fatto de quo possa essere considerato controverso. [...] • La condotta illecita, già di per sé potenzialmente pregiudizievole, è stata fonte di danno anche in concreto. [...] • Il danno in questione ben può essere liquidato in via equitativa ai sensi dell’ art.125 c.p. i. ( visto che si verte in materia di violazione del marchio e di concorrenza sleale interferente con la materia dei segni distintivi) e comunque ex art.2598, 2043, 2600 e 1226 c.c. [...] • Riesce pertanto assai disagevole basarsi come criterio di liquidazione sull’utile realizzato dall’autore della contraffazione. [...] • Tenuto conto delle circostanze tutte accertate appare equa misura compensativa, idonea a contribuire alla riparazione del danno la pubblicazione di un estratto con l’intestazione e il dispositivo della sentenza sul quotidiano “LS" e sui due siti internet citati. § 11.[...]
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