Documents - 39 citing "REGIO DECRETO 28 ottobre 1940, n. 1443 - Article 183"

azione di rivendica, nella qualità di co-inventore o inventore, di un brevetto per invenzione industriale, domanda di risarcimento del danno.
L’invenzione è brevettabile in quanto sia atta ad avere un’applicazione pratica industriale ovvero, come rammentato in dottrina, sia idonea a realizzarsi concretamente “in cose materiali” o “con mezzi materiali specifici”, requisiti che si esplicano nella c. d. “industrialità”. Appare allora evidente che quella dell’attore descrive una mera idea alquanto rudimentale che non consente di comprendere se essa sia idonea a realizzarsi concretamente nel mondo della tecnica, conseguendo un determinato risultato attraverso determinati mezzi; ciò che rivendica l’attore non gode di tali requisiti;C E evidente allora la distanza tra l’idea rudimentale dell’attore ed il brevetto sopra descritto. Il sistema brevettato da AB non si basa su uno scambio continuo e costante tra il sistema di molle, che costituirebbe il nucleo dell’idea inventiva dell’attore. Nel trovato dei convenuti le molle invero non si caricano e scaricano a vicenda ma vengono caricate dalla rotazione di un albero e rilasciano l’energia accumulata a favore del medesimo albero di rotazione. Ritiene quindi il Collegio che la conoscenza approssimativa di alcune parti del brevetto avversario da parte del Q sia del tutto omogenea alla ricostruzione della vicenda operata dai convenuti, ossia dall’osservazione esterna del prototipo predisposto da AA. Del resto, i video depositati dall’attore giocano un ruolo assolutamente neutro rispetto alla sua tesi, non essendo riscontrabili argomenti di prova che consentano di ricondurre l’invenzione all’attore.
diritto all’equo premio
In conformità al disposto dell’art. 64 secondo comma CPI, all’inventore spetta un equo premio “se non è prevista e stabilita una retribuzione, in compenso dell'attività inventiva, e l'invenzione è fatta nell'esecuzione o nell'adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro o di impiego”, “qualora il datore di lavoro o suoi aventi causa ottengano il brevetto o utilizzino l'invenzione in regime di segretezza industriale”. In presenza di tali circostanze, i diritti derivanti dall'invenzione appartengono al datore di lavoro, ma all'inventore, salvo sempre il diritto di essere riconosciuto autore, spetta un equo premio. L’art. 64.2 CPI prevede, per tale ipotesi, nella quale è sussumibile la fattispecie concreta, il diritto all’equo premio del lavoratore alternativamente, sia con riguardo al caso di concreta utilizzazione dell’invenzione che con riguardo a quello del rilascio del brevetto. Tale circostanza, della concreta utilizzazione dell’attività inventiva, è un indizio dell’importanza dell’invenzione e, unitamente ad altre circostanze, quali le mansioni svolte dal lavoratore, la retribuzione percepita dall'inventore, nonché il contributo ricevuto dall'organizzazione del datore di lavoro, influiscono semmai sulla quantificazione dell’equo premio; quantificazione che, però, non rientra nei limiti del sindacato di questa autorità giudiziaria, circoscritto solo, conformemente alla domanda attorea, all’accertamento del diritto all’equo premio. La soluzione scelta dal legislatore, di riservare l’accertamento del diritto all’autorità giudiziaria, demandando la quantificazione del compenso al collegio di esperti, denominato arbitratore, è connotata da ibridismo.
avente ad oggetto: diritto all’equo premio ex art. 64 C.p.i.
Le circostanze suddette sono altresì idonee a provare che i diritti sorti in capo all’odierna appellante, società italiana del gruppo, siano stati ceduti alla società statunitense che ha poi chiesto e ottenuto il brevetto. L’obbligo dell’odierna appellante di corrispondere l’equo premio in quanto datrice di lavoro dell’inventore, nonostante l’invenzione risulti brevettata da un avente causa, può essere affermato anche in relazione all’art. 23 cit. (che, a differenza dell’art. 64 c. p. i. , non contiene l’espresso riferimento agli “aventi causa”), poiché risulta coerente con la “ratio” della norma, che vuole riconoscere un concreto profitto al lavoratore ponendolo a carico del soggetto a cui favore è stabilita la deroga al principio che il titolare dei diritti sull’invenzione è l’inventore. L’art. 23 co. 1 r. d. cit. , che prevede le invenzioni di servizio alle quali l’appellante vorrebbe ricondurre l’invenzione per cui è causa, riguarda le invenzioni industriali fatte nell’esecuzione o nell’adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro o d’impiego, in cui “l’attività inventiva è prevista come oggetto del contratto o del rapporto e a tale scopo retribuita”, invenzioni per le quali, a differenza delle invenzioni di azienda di cui al secondo comma della norma, non spetta alcun premio, proprio perché è prevista “ex ante” una retribuzione che remunera l’attività inventiva. Spetta al giudice del merito - con accertamento"ex ante" e non"ex post", senza che assuma rilievo la maggiore o minore probabilità che dall'attività lavorativa possa scaturire l'invenzione - valutare se le parti abbiano voluto pattuire una retribuzione quale corrispettivo dell'obbligo del dipendente di svolgere una attività inventiva” (Cass. 6367/11). Applicando il principio alla presente fattispecie risulta condivisibile la valutazione del Tribunale che ha escluso trattarsi di invenzione di servizio.
Azione di contraffazione di modello comunitario registrato, concorrenza sleale; risarcimento del danno; pubblicazione.
Tale orientamento è del resto in linea con quello consolidatosi sin dalla fine degli anni „80 nella materia industriale e ribadito, anche di recente, nella giurisprudenza di merito, secondo il quale la frazione della condotta censurata posta in essere nella circoscrizione territoriale del giudice adito (ovvero anche il danno lamentato) deve essere riferibile necessariamente al soggetto chiamato in giudizio (eventualmente anche unitamente agli altri). [...] Nel caso in esame pertanto, tenuto conto della prospettazione della domanda, la stretta connessione oggettiva che lega le posizioni delle tre convenute –la cui azione si colloca nelle diverse fasi della condotta illecita: ovvero produzione, commercializzazione e vendita al dettaglio– consente senza dubbio l‟evocazione in giudizio in questa sede anche di L: e ciò non alla luce dell‟ art. 33 c.p.c., bensì del primo comma dell‟ art. 103 c.p.c. (v. anche in generale Cass. 12444/13 ). [...] Va premesso che il requisito del carattere individuale è rinvenibile -secondo la migliore dottrina- nella c.d. differenza qualificata, non limitata a dettagli irrilevanti, ma incidente sull‟impressione generale suscitata dal modello. L‟indirizzo qui seguito, seppure non univoco, ritiene tale presupposto assai meno pregnante rispetto a quello prescritto dalla normativa previgente, che richiedeva una vera e propria potenzialità nel far evolvere il gusto e nel configurare una nuova estetica (speciale ornamento). Con la conseguenza che, sotto il nuovo regime, “l’ambito delle forme tutelabili ne risulta ampliato a tutte quelle che presentano una originalità estetica che possa da sola orientare le scelte di acquisto del consumatore finale" (cfr. Tribunale di Milano, sentenza n. 3036/2010 ). E queste forme -attributive proprio di quel livello di individualità tali, secondo alcuni, non solo da attirare l‟attenzione del consumatore, ma altresì da costituire motivo di preferenza per l‟acquisto (cfr. in ordine a tale ultimo orientamento, Tribunale Bologna, 23.9.2009 , G. Est. Bariscia)- sono proprio quelle che segnano il confine della privativa tutelabile, giacché è proprio a quel quid di distinzione che viene conferita tutela. Nel caso in esame, le due anteriorità non sono tuttavia distruttive. [...] La contraffazione del modello Passando alla contraffazione, il confronto tra il design dell‟attrice e il prodotto commercializzato dalle convenute evidenzia un‟assoluta coincidenza del carattere individuale, ossia l‟impressione generale prodotta nell‟utilizzatore informato, senza alcuna reale discontinuità. [...] Tali differenze risultano tuttavia quasi impercettibili, quindi inidonee a suscitare una diversa impressione generale. L deduce inoltre come ad un consumatore informato non possano sfuggire i diversi materiali utilizzati nonché la sensibile differenza di prezzo. Premesso che l‟ottica è quella dell‟apprezzamento dell‟utilizzatore informato, i materiali utilizzati non rientrano tra le scelte oggetto del monopolio e, quanto al prezzo, tale circostanza non elide il rischio confusorio, tenuto conto della c.d. post sale confusion. [...] Il comando giudiziale Accertata la validità dei modelli attorei e la contraffazione degli stessi da parte delle convenute, vanno inibito alle convenute la fabbricazione, l‟importazione, la commercializzazione, l‟esportazione, la pubblicizzazione e la promozione delle calzature interferenti.[...]
contraffazione, concorrenza sleale, marchio registrato, inibitoria, danno morale, inosservanza, pubblicazione della sentenza, Marchi, risarcimento del danno, registrazione del marchio, preuso, diritto di vietare ai terzi, identità o somiglianza, rischio di confusione, rischio di associazione
Infine, viene rilevata la genericità e l’indeterminatezza, oltre che l’infondatezza della domanda risarcitoria. Ai sensi dell’art.20 lettera b) c. p. i. , il titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nell'attività economica un segno identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell'identità o somiglianza fra i segni e dell'identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni. Nel caso di specie, il giudizio sulla confondibilità tra i due segni non può prescindere dalla considerazione che il tipo di consumatore destinatario della pubblicizzazione del marchio è il medesimo, essendo entrambi rivolti al settore sposi e matrimonio nella medesima provincia di Como. Riguardo a tale produzione, nessuna contestazione ha sollevato la convenuta, così come nulla ha eccepito in relazione alla produzione documentale della controparte (docc.28- 30) che dimostra che la polizia locale di XXX ha elevato una contravvenzione per affissione abusiva di cartelloni pubblicitari, inviando, per errore, a T s. r. l. la relativa sanzione a causa della confusione del marchio “COMO SPOSI” con il marchio “VIVA GLI SPOSI”. Per tutte le considerazioni che precedono, la lamentata contraffazione del marchio dell’attrice deve pertanto ritenersi provata. Anche in ipotesi concorrenziali, ove si suole dire che il danno sarebbe “in re ipsa” e da valutare equitativamente ex art. 1226 c. c. , la parte che invoca il risarcimento è comunque onerata di svolgere quelle deduzioni che possono conferire concretezza alla specifica pretesa di quantificazione, fornendo al giudice una base sulla quale esprimere la propria valutazione (cfr. Cass. 18748/10).
mala fede, Marchi, contraffazione, concorrenza sleale, uso del segno, inosservanza, risarcimento del danno, rischio di confusione, notorietà, uso effettivo, pubblicità, registrazione del marchio, preuso, preutente, diritto alla registrazione, marchio registrato
Analoghe considerazioni possono svolgersi con riferimento alla denominazione sociale ASER. Alla norma può quindi darsi il significato di accordare (una anticipata) tutela a chi, pur avendo già destinato il segno a fungere come proprio marchio, non vi abbia ancora provveduto e, viceversa, di negarla a chi, avendo conoscenza di tale destinazione, frapponga ostacoli, in mala fede, appunto a tale “programma” depositando a proprio nome l’”altrui” segno. Tanto premesso, va quindi osservato nel caso di specie in primo luogo che, in conformità della stessa prospettazione della parte attrice e per come effettivamente accertato nei punti che precedono la società è titolare di un diritto (seppure concorrente) sul segno “ASER”, per l’attività di servizi funebri e limitatamente al territorio delle province di Ravenna e Faenza. Sicché la situazione soggettiva della società A non può qualificarsi in termini di legittima aspettativa alla registrazione del marchio ASER per servizi relativi al settore delle onoranze funebri (il segno peraltro sarebbe stato utilizzato ininterrottamente dal 2006). E tale aspettativa non si configura per la società attrice neanche con riferimento all’utilizzo del segno non limitato alle province di Ravenna e Faenza, non essendovi traccia di tale prospettazione nell’atto introduttivo. dunque non ricorrono i presupposti della tutela richiesta. Con riferimento alla seconda ipotesi (appropriazione di pregi) può senz’altro ritenersi la carenza della allegazione, non essendo stati specificamente allegati i pregi la cui appropriazione da parte delle società convenute consentirebbe di integrare illecito. Qualora il pregio fosse invece costituito proprio dal segno, le conclusioni non potrebbero divergere da quanto osservato al punto che precede.16.
decorso del termine, registrazione del marchio, marchio posteriore, buona fede, titolare del marchio, decadenza, contraffazione, marchi, rischio di confusione, concorrenza sleale, uso del segno, marchio registrato, pubblicazione della sentenza, pubblicità, progettazione, notorietà, inibitoria, convalidazione, mala fede, marchio anteriore, preuso
Per giurisprudenza comunitaria e nazionale, il dies a quo decorre, infatti, dalla data di registrazione del marchio e non può incominciare a decorrere a partire dal mero uso di un marchio posteriore, anche qualora il suo titolare abbia provveduto e ottenuto in seguito la registrazione, essendo quattro le condizioni necessarie per la integrazione della fattispecie: - la registrazione del marchio posteriore nello stato membro interessato; il deposito in buona fede del marchio posteriore; l’uso del marchio posteriore da parte del titolare nello stato membro in cui è stato registrato; la conoscenza da parte del titolare del marchio anteriore della registrazione e dell’uso dopo la sua registrazione. In altre parole, pur restando fermo che la produzione degli effetti ricollegati alla notificazione è condizionata al perfezionamento del procedimento nei confronti del destinatario, la notifica si considera perfezionata per il notificante in un momento diverso e anteriore, ponendolo al riparo da ogni decadenza che possa nel frattempo maturare. Sarebbe palesamente irragionevole e lesivo del diritto di difesa del notificante che un effetto di decadenza potesse discendere dal ritardo nel compimento di attività non riferibili al notificante, ma a soggetti diversi - ufficiale giudiziario e agente postale- del tutto estranee alla sua disponibilità. Ciò verificato in fatto, va osservato in diritto che, per il riconoscimento del marchio di fatto, non può ritenersi prova sufficiente l’uso occasionale o sporadico di un segno. La presenza di una “serie” di marchi costituisce, è vero, un fattore rilevante, ma non certamente l’unico di cui tenere conto ai fini della valutazione dell’esistenza di un rischio di confusione. La mera qualificazione dei marchi invocati come ricollegati a una “serie” o a una “famiglia” non è sufficiente a fondare tale rischio. L’esistenza di tale rischio di confusione per il pubblico deve essere oggetto di valutazione globale, prendendo in considerazione tutti i fattori pertinenti per verificare in concreto se esisteva un rischio che il pubblico di riferimento potesse credere che il marchio G, di cui è stata chiesta la registrazione per primo, facesse parte della serie di marchi invocata dalle convenute.
Declaratoria di decadenza parziale di marchio registrato
In materia di decadenza del marchio per non uso, chi invoca il fatto negativo estintivo del diritto ha l’onere di provare la mancata utilizzazione del segno. Conformemente al costante orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte, l'onere della prova gravante su chi agisce (o resiste) in giudizio non subisce deroghe nemmeno quando abbia ad oggetto fatti negativi. L’ammissibilità della prova presuntiva è, peraltro, anche espressamente prevista nell’art. 121.1. CPI, ai sensi del quale “La prova della decadenza del marchio per non uso può essere fornita con qualsiasi mezzo comprese le presunzioni semplici”. La giurisprudenza e la dottrina hanno individuato, a titolo esemplificativo, i seguenti elementi presuntivi del non uso del marchio: - l’assenza del marchio e dei relativi prodotti nei listini pubblicati da un’associazione di categoria; - l’assenza del marchio e dei relativi prodotti nei cataloghi dell’impresa titolare della privativa; - il fatto che il settore merceologico per il quale il marchio è stato registrato sia notevolmente distante dall’oggetto sociale della società titolare della registrazione; - l’assenza del segno dal sito web della convenuta; -la mancanza di risultati tramite ricerche per parole chiave su Google e tramite ricerche sul sito www. archive. org. Alla luce degli elementi di prova emersi, va pertanto dichiarata la decadenza del marchio avversario, per non uso negli ultimi cinque anni, in applicazione del combinato disposto dagli artt. 235 e 47 R. D. 929/1942, nonché 26(c), 24 e 27 CPI.6.
ordinanza cautelare, concorrenza sleale, marchi, risarcimento dei danni, notorietà, preuso, contraffazione, giudizio di merito, rischio di confusione, carattere distintivo, imitazione servile, inibitoria, provvedimenti cautelari, misure cautelari, compenso
In ragione dell’uso continuativo, diffuso e protratto nel tempo, non circoscritto al solo territorio di XXX e provincia, bensì articolato, attraverso agenzie collegate in franchising, su tutto il territorio della XXX, vi è altresì fondato motivo di ritenere che tali segni abbiano acquisito la natura di marchi di fatto, nonché una significativa capacità distintiva con riferimento al settore merceologico sopra indicato ed anche una certa notorietà in ambito ultralocale, estesa, cioè, quantomeno all’intero territorio regionale. [...] Le iniziative così assunte dalla ditta convenuta, tuttavia, non appaiono idonee ad elidere i profili di illegittimità allegati da controparte, atteso che la parola “Maggiore”, costituente, come sopra esposto, marchio di fatto e segno distintivo dell’impresa attrice, ha continuato ad essere impiegata dalla concorrente all’interno del proprio nome a dominio, nell’indirizzo internet di “you tube” e negli indirizzi di posta elettronica direttamente riferibili alla stessa ditta e/o alla sua titolare. Tale persistente impiego da parte della convenuta del segno “Maggiore”, da solo o abbinato alla parola “Infortunistica”, e di simboli (bilancia), come detto in preuso da parte dell’attrice, per contraddistinguere i medesimi servizi dalla prima prestati nello stesso settore merceologico (infortunistica), e in un ambito territoriale sostanzialmente coincidente o, comunque, estremamente contiguo, senza alcun dubbio provoca tra i fruitori un serio rischio di confusione circa l’effettiva origine imprenditoriale di dette attività, tenuto anche conto della perfetta identità del nome utilizzato. Nella complessità strutturale del marchio di fatto in preuso da parte dell’attrice, appare pure evidente che la parola “Maggiore” rappresenti l’elemento dotato di maggiore carattere distintivo (c. d cuore), sicchè la circostanza che la convenuta ne faccia uso, nelle forme e con le modalità sopra indicate, associandolo al termine “Duo”, non neutralizza in toto il riscontrato rischio di confusione, segnatamente da contatto, in quanto i segni a confronto si sovrappongono sostanzialmente, con specifico riguardo al termine “Maggiore” dotato, per le ragioni in precedenza illustrate, di più elevata capacità distintiva. Alla luce delle considerazioni che precedono, deve, per ciò, ritenersi positivamente accertata la dedotta responsabilità della convenuta per contraffazione di marchio (di fatto) di cui al combinato disposto degli artt. 20, 1 e 2 CPI, la quale, in ragione della oggettiva coincidenza e sovrapponibilità dei fatti e conseguenze allegati in citazione, assorbe l’ulteriore profilo di responsabilità da concorrenza sleale confusoria ex art. 2598 n. 1 c.c. [...] Del resto, i mezzi istruttori sul punto articolati dall’attrice, per la genericità e per il contenuto essenzialmente valutativo delle circostanze oggetto di capitolato testimoniale, non appaiono assolutamente idonei a dimostrare l’esistenza e l’entità del lamentato pregiudizio patrimoniale.[...]
contraffazione, concorrenza sleale, pubblicità, inosservanza, inibitoria, pubblicazione della sentenza, compenso, decadenza, risarcimento dei danni, ordine di ritiro dal commercio, uso di segno, rischio di confusione, divieto, principi della correttezza professionale
Certamente si tratta di un segno connotato da una rilevante espressività, che se non indica esclusivamente il prodotto in sè, ne è strettamente collegato, indicandone anche caratteristiche “celestiali”. Tuttavia la crasi tra “vino” e “divino” mantiene una sua qualche originalità che consente al termine in questione di acquisire una sufficiente distintività ai fini della sua registrazione. [...] Ci si trova invero di fronte all’ipotesi, di cui all’art. 20 lett. a) CPI, di uso di segno identico al marchio per un servizio identico a quello per cui è stato registrato, che garantisce al titolare una tutela assoluta, a prescindere dal rischio di confusione. [...] Ovviamente, per il principio di unitarietà dei segni distintivi di cui all’art. 22 CPI, il divieto di utilizzazione si estende anche all’uso come denominazione sociale (essendo evidente, anche per quello che si dirà in seguito) il rischio di confusione per il pubblico. [...] Innanzitutto va ricordato come le informazioni in relazione a nome, fatturato ed esigenze (anche di modalità di contatto) della clientela, anche se non abbiano tutte le caratteristiche di cui agli artt. 98 e 99 CPI, rappresentano un importante patrimonio aziendale, la cui apprensione attribuisce al collaboratore infedele, che attui la sottrazione, un vantaggio concorrenziale assolutamente indebito, consentendogli innanzitutto di risparmiare gli enormi costi di acquisizione. [...] Siffatta illecita operazione è stata evidentemente favorita, oltre che dalla scelta della denominazione sociale, dal alcuni accorgimenti di per sé non rilevanti quali ricorrere al medesimo trasportatore, (v. dep. C) onde favorire -al di là della confusione cui potevano essere indotti i clienti- una sensazione di continuità aziendale, che attribuisce indebitamente alla nuova società concorrente quelle caratteristiche di affidabilità ed aspettative (di servizio e vantaggi) necessarie a recidere qual rapporto di fidelizzazione su cui si fonda la redditività di imprese di vendite telefoniche o porta a porta, quale le due odierne contendenti. [...] L’accertamento compiuto comporta altresì la responsabilità risarcitoria in capo alla convenuta, per la contraffazione del marchio e soprattutto per l’attività di acquisizione in blocco di risorse della concorrente e del conseguente tentativo di “storno” della clientela, finalizzata a coprire parassitariamente una fetta di mercato già acquisita dalla società attrice ed in esclusivo danno della stessa, in violazione del precetto di cui all’ art. 2598 c.c. [...] Manca tuttavia la rigorosa prova di un nesso causale tra siffatta diminuzione di fatturato e gli illeciti compiuti da OS ai danni dell’attrice, ben potendo essere stato determinato da elementi esogeni, quali certamente la notoria crisi economica, che ha comportato la riduzione di spese, soprattutto voluttuarie, da parte delle famiglie. [...] Pertanto il danno eziologicamente ricollegabile agli illeciti concorrenziali subiti da COP non può coincidere con un importo pari al fatturato perso all’esito della fuoriuscita, che può dipendere come detto da una molteplicità di fattori. Tuttavia un’organizzazione che subisca una condotta di ex dipendenti, con modalità così intenzionalmente dirette alla sottrazione di clientela si trova di fronte ad una situazione eccezionale, che richiede uno sforzo aggiuntivo, che le impone di utilizzare risorse non per la normale attività di acquisizione della clientela ed esecuzione dell’incarico, ma per rimediare ai danni causati dall’attività di disturbo nelle relazioni contrattuali ormai consolidate e per riacquistare l’accreditamento sul mercato. Per quanto non confermato testimonialmente avanti al giudice, pare presumibile quanto risulta da alcune lettere inviate dai venditori a COP, con richiesta di autorizzazione ad una campagna offerte e promozioni finalizzata alla riacquisizione o fidelizzazione della clientela (v. doc. 17). Siffatte emergenze di disagio imprenditoriale, assai superiore a quello di chi debba esclusivamente sostituire un dipendente-venditore che ha scelto di “mettersi in proprio”, rappresentano una “voce di danno” non facilmente dimostrabile (e tantomeno quantificabile matematicamente, neppure con l’ aiuto di un CTU) per la quale appare giustificato il ricorso alla valutazione equitativa ex art. 1226 c.c.[...]