Sentenza 1097/2015 della Corte Dappello Di Milano Sezione Specializzata In Materia Di Impresa

Sentenza n. 1097/2015 pubbl. il 11/03/2015
RG n. 4322/2013
Repert. n. 1020/2015 del 11/03/2015
Registrato il: 05/09/2018 n.42887/2018 importo 21 7,50
N. R.G. 4322/2013
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE D’APPELLO DI MILANO
SEZIONE SPECIALIZZATA IN MATERIA DI IMPRESA
nelle persone dei seguenti magistrati:
- giu1 Presidente N EN
- giu2 Consigliere
- giu3 Consigliere rel. est.

ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa iscritta al n. r.g. 4322/2013 promossa in grado d’appello
DA
CS SPA (C.F.: XXX), con sede in XXX, in persona
dell’Amministratore Delegato legale rappresentante VM, rappresentata e difesa
dagli avv.ti RJ e MB ed elettivamente domiciliata presso il loro studio in
XXX, come da procura a margine dell’atto di citazione in appello
APPELLANTE
CONTRO
TTC, società di diritto statunitense, con sede in XXX,
in persona del suo rappresentante legale DW, rappresentata e
difesa, come da procura speciale notarile munita di apostille n. XXX, in data XXX, agli
atti del notaio KHS, dagli avv.ti GFC e NF ed elettivamente
domiciliata presso il loro Studio in XXX
APPELLATA
E
FCT SRL, con sede in XXX, in persona del suo legale
rappresentante pro tempore
APPELLATA CONTUMACE
causa avente ad oggetto l’impugnazione della sentenza del Tribunale di Milano n. 8216/2013 del
18/04/2013, pubblicata in data 11/06/2013, nella quale all’udienza di precisazione delle conclusioni in
data DD/MM/2014 | difensori delle parti così
CONCLUDEVANO:
PER L’APPELLANTE
come da fogli allegati
PERL’ APPELLATA
come da fogli allegati
CORTE D’APPELLO DI MILANO
SEZIONE SPECIALIZZATA IN MATERIA D’IMPRESA
RG No 4322/2014 — Cons. Rel. Dottor giu3

Nell’interesse di
(1) CS SpÀ, rappresentata e difesa dagli Avv.ti RAJ e MB del Foro di XXX
- appellante, convenuta nel grado a quo -
contro
(2) TTC, rappresentata e difesa dagli Avv.ti
GFC e NNF del Foro di XXX
- appellata, attrice nel grado a quo -
e contro
(3) FCT Srl
- appellata, convenuta contumace e terza chiamata nel grado a quo -
Avverso
Sentenza n. 1097/2015 pubbl. il 11/03/2015 RG n. 4322/2013
Repert. n. 1020/2015 del 11/03/2015
Registrato il: 05/09/2018 n.42887/2018 importo 217,50
la sentenza no. 8216/2013 pronunziata dal Tribunale di Milano in
composizione collegiale, Sezione Specializzata in Materia di Impresa “A”,
Giudice Estensore AZ, depositata in data 11.06.2013,
notificata in data 22.11.2013 [#Sentenza”, oppure “Sentenza Impugnata”, oppure
“Sentenza di Primo Grado”].
* * *
CONCLUSIONI PRECISATE AD UDIENZA DD/MM/2014
*
Voglia l’Ecc.ma Corte di Appello di Milano, Sezione Specializzata in
Materia di Impresa; ritenuta l'ammissibilità del gravame, anche per gli effetti
degli artt. 342 e 348-bis CPC ; in sua totale riforma
I) nel merito, dichiarare inammissibile, in quanto formulata per la prima
volta in sede di appello, la domanda di condanna ai sensi dell’art. 96
CPC proposta da TTC nei confronti di
CS SpA;

Il) nel merito, rigettare le domande proposte da TTC nel giudizio di Primo Grado; per l’effetto, condannare
quest’ultima alla restituzione delle somme già pagate da CS SpA in esecuzione della Sentenza Impugnata;

III) in subordine, nel merito, nella non creduta ipotesi di conferma della
Sentenza Impugnata, dichiarare la convenuta contumace e terza
chiamata FCT Srl tenuta a manlevare e tenere indenne
CS SpA da ogni pretesa attorea, condannandola a
rifondere a CS SpA quanto sia eventualmente
condannata a pagare a TTC;

IV) sollevare rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione
Europea ex art. 267, II° comma, TFUE , per riceverne l’interpretazione
pregiudiziale degli artt. 34 e 36 TFUE c 7.1 della Direttiva
2008/95/CE, delle sentenze rese nella Causa C-173/98, S, nella
Causa C-244/00 VD, e nelle Cause Riunite da C-414/99 a C-
416/99, D, e dei principi comunitari di proporzionalità ed
autonomia processuale degli Stati Membri, per conoscere se ostino ad
una normativa nazionale del tipo dell’art. 5 del CPI, ove applicato nel
senso che si critica in narrativa, previa la formulazione di opportuni
quesiti, come suggerito nel $ 73 dell’atto di citazione in appello;
conseguentemente disporre la sospensione del presente giudizio, sino a
comunicazione della sentenza della Corte di Giustizia che avrà
pronunciato sul rinvio;

V) in via istruttoria,
(i) ordinare a TTC di esibire, ai sensi
dell’ art. 210 CPC , documentazione contabile e contrattuale in
grado, da un lato, di tracciare il percorso di filiera dello
scarponcino 10061M fuori dallo SEE e, dall’altro lato, di
comprovare l’esistenza di accordi tra TTC ed i propri partners di filiera evidenzianti il divieto
di circolazione di questo specifico “modello” nello SEE;
(ii) respingere la richiesta di esibizione ai sensi dell’art. 121-bis CPI
della documentazione bancaria, finanziaria e commerciale in
possesso di CS SpA, avendo CS
SpA già adempiuto all’ordine di esibizione della scritture
contabili con “NOTA DI DEPOSITO DI DOCUMENTI” in data DD/MM/2012;
(iii) respingere la richiesta di informativa ai sensi dell’art. 121 e 121-
bis CPI in quanto lesiva del diritto di riservatezza e dei segreti
aziendali di CS SpA circa l’origine e le fonti di
approvvigionamento dei prodotti da essa commercializzati; a tale
riguardo, respingere la richiesta di interrogatorio formale del
legale rappresentante di CS SpA;
VI) ogni caso, con vittoria di spese, competenze e onorari di entrambi i gradi di giudizio.
CORTE D’APPELLO DI MILANO
Sezione Specializzata in Materia di Impresa
R.G. 4322/2013 — Cons. Rel. giu3
Udienza 14/11/2014, ore 9,15
FOGLIO DI PRECISAZIONE DELLE CONCLUSIONI E CONTESTUALE
ISTANZA DI DISCUSSIONE ORALE DELLA CAUSA DAVANTI AL COLLEGIO
(per la conferma della sentenza n. 8216/2013 - RG 16452/2010
pronunciata dal Tribunale di Milano - Sezione Specializzata in Materia di Impresa-Sez. A
depositata in data 11.06.2013, notificata in data 29.11.2013)
Nell’interesse di TTC (di seguito, T), con gli Avv.ti
GFC (C.F. XXX, PEC: XXX) e NF (C.F. XXX, PEC: XXX).
- appellata / attrice -
NEL GIUDIZIO DI APPELLO PROMOSSO DA
CS S.P.A. (di seguito, C), con gli Avv.ti RAJ, MB. - appellante / convenuta -
NONCHE’ CONTRO
FCT S.R.L. (di seguito, FCT).
- appellata/convenuta contumace e terza chiamata-
Ai sensi dell' art. 352 c.p.c. , T, come in epigrafe rappresentata e difesa ed
elettivamente domiciliata
CHIEDE
all’Ill.mo Presidente di fissare, con decreto, la data dell'udienza di discussione orale della causa
dinanzi al Collegio.
Fermo restando il rispetto dei termini indicati dall' art. 190 c.p.c. per il deposito delle difese
scritte, la richiesta verrà riproposta dalla esponente al Presidente della Sezione Specializzata in
Materia di Impresa alla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica.
Tutto ciò premesso, T, come sopra rappresentata, difesa ed elettivamente
domiciliata, dichiarando sin d'ora di non accettare il contraddittorio su domande nuove o
modificate, contrartis rejectis, insiste per l'accoglimento delle seguenti
CONCLUSIONI
Voglia, l’Ecc.ma Corte d'Appello di Milano, Sezione Specializzata in materia di Impresa:
In via preliminare:
1. rigettare l'istanza di sospensione dell'efficacia esecutiva della sentenza impugnata, in
relazione al capi n. 2, 3 del dispositivo della decisione.

2. rigettarel'appello proposto da C;
3. rigettare la domanda svolta, in via subordinata da C, di rinvio pregiudiziale alla Corte
di Giustizia;

4. confermare la sentenza gravata n. 8216/2013 , resa inter partes, nel giudizio di primo grado
RG 16452/2010, dalla Sezione Specializzata in Materia di Impresa del Tribunale di Milano perché giusta, correttamente motivata e metodologicamente inequivocabile.

5. condannare C al risarcimento del danno ex art. 96, 1° e 2° co., c.p.c.
6. condannare C alla rifusione degli onorari, diritti e spese di lite, per entrambi i gradi
di giudizio, oltre IVA, CPA, spese generali 15 %, interessi legali e rivalutazione monetaria.

- Si chiede, altresì, alla Ecc.ma Corte d'Appello adita di demandare alla competente cancelleria la
trasmissione, ai sensi dell' art. 347 co. 3 c.p.c. , del fascicolo di primo grado (R.G. 16452/2010)
custodito presso la Cancelleria della Sezione Specializzata in Materia di Impresa - Sez. A, del
Tribunale di Milano;
- Al sensi e per gli effetti di cui all' art. 170, comma 4, c.p.c. , i sottoscritti difensori dichiarano di
voler ricevere le comunicazioni previste nella predetta norma al seguente numero di telefax
02.87389452, nonché, ai seguenti indirizzi di posta elettronica certificata:
[email protected] e [email protected].
Con osservanza,
Avv. NF

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
e
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con atto di citazione in grado di appello regolarmente notificato l’appellante CS S.p.a. (di
seguito anche solo: C) ha evocato in giudizio TTC (di seguito anche solo:
T) e FCT S.r.l. (contumace), interponendo gravame avverso la sentenza del Tribunale
di Milano

n. 8216/2013 del 18/04/2013

, pubblicata in data 11/06/2013, con la quale il primo Giudice:


- accertava e dichiarava che la commercializzazione in Italia delle calzature -
scarponcino T n. 10061 M - oggetto di importazione non autorizzata da territori
extracomunitari da parte delle convenute avesse costituito atto di contraffazione dei diritti di
marchio dell'attrice;

- inibiva alle convenute ogni attività di importazione e commercializzazione delle calzature
indicate al punto precedente;

- fissava una penale pari all'importo di € 100,00 per ogni scarponcino ulteriormente importato
ovvero commercializzato o venduto in violazione dell'ordine di cui sopra, successivamente alla
pubblicazione della presente sentenza;

- condannava C al risarcimento del danno liquidato nell'importo complessivo di € 90.000,00,
di cui € 70.000,00 in solido con FCT S.r.l.;

- dichiarava FCT S.r.l. tenuta a manlevare C per le poste che la stessa fosse tenuta a
corrispondere in virtù della penale, fino all'importo di € 70.000,00, oltre interessi legali;

- ordinava il ritiro dal commercio degli scarponcini litigiosi e l'assegnazione in proprietà delle
calzature ancora in giacenza presso C;

- condannava le convenute in solido al pagamento delle spese del giudizio,
liquidate complessivamente nell'importo di € 11.000,00 di cui € 718,00 per spese non imponibili
ed il residuo per onorari, oltre IVA se dovuta, CPA e spese di registrazione.

Con atto di citazione T aveva convenuto C affinché il Tribunale accertasse e dichiarasse
che le condotte della convenuta e della terza chiamata FCT (rimasta contumace anche in primo
grado) avevano costituito violazione dei diritti sul marchio T e, comunque, attività illecita, ai
sensi dell’art. 20 CPI.
Per l’effetto, aveva chiesto di disporre l’immediato ritiro dal mercato e la
distruzione ovvero l’assegnazione in proprietà ad essa attrice di tutti gli articoli e materiale
pubblicitario recanti il marchio T illecitamente commercializzati e diffusi dalle convenute,
d’inibire alle convenute la continuazione degli illeciti di cui sopra e di condannarle al risarcimento dei
danni,
fissando una penale per ogni violazione successiva all'emanazione della sentenza. Infine, aveva
domandato l’ordine della pubblicazione del dispositivo della sentenza.

C, costituendosi in giudizio, aveva contestato tutte le domande azionate da T e in
subordine aveva chiesto di dichiarare che la convenuta contumace e terza chiamata FCT fosse
tenuta a manlevare e tenere indenne C da ogni pretesa attorea, con condanna a rifonderle quanto
fosse eventualmente condannata a pagare a T.
C ha censurato la sentenza di primo grado lamentando l’errore del giudice di prime cure laddove:
- aveva dichiarato non sussistere il consenso implicito da parte di T per la distribuzione
del prodotto - scarponcino T n. 10061 M - all’interno del SEE, posto che, non
essendo sufficiente che il titolare del marchio avesse dato il proprio consenso all'immissione sul
mercato nel territorio europeo di prodotti identici o simili a quelli provenienti da Paesi terzi, per i
quali l'esaurimento era stato invocato, C avrebbe dovuto dimostrare di avere acquistato lo
scarponcino litigioso da T o da soggetti ad essa collegati e non limitarsi a provare di
averlo acquistato da un soggetto che opera nell’ambito comunitario senza poi documentare la /
iniziale provenienza del prodotto ed il primo atto di immissione in commercio del bene;

- aveva ritenuto non sussistere il presupposto previsto dalla Corte di Giustizia, ovvero l’esistenza
di un sistema di distribuzione esclusiva da parte del titolare del marchio, per spostare su
T l’onere di provare il mancato consenso all'immissione nello spazio SEE del prodotto
di cui al punto precedente, non ravvisando, nel caso di specie, il concreto rischio di
compartimentazione dei mercati, considerato il sistema di distribuzione selettiva adottato da
T.

In subordine, l’appellante ha chiesto di sollevare rinvio pregiudiziale alla corte di giustizia dell’Unione
Europea ex art. 267, II comma, TFUE , per riceverne l’interpretazione pregiudiziale degli artt. 34 e 36
TFUE e 7.1 della Direttiva 2008/95/CE , delle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (C-
173/98, S; C-414/00, VD; Cause riunite C-414/99 a C-416/99 D) e dei principi
comunitari di proporzionalità ed autonomia processuale degli Stati Membri per conoscere se: (a) il sistema
di distribuzione selettiva adottato dal titolare del marchio può produrre un rischio di compartimentazione
dei mercati nazionali in contrasto con gli artt. 34 e 36 TFUE analogamente ad un sistema di distribuzione
esclusiva, con riferimento alla sentenza della Corte di Giustizia resa nella Causa C-244/00, VD ; (b)
se la diversità di taglia di prodotti di abbigliamento originali contraddistinti dal marchio può costituire
l’unico o il prevalente elemento di prova della loro destinazione ad un mercato di commercializzazione al
di fuori dello Spazio Economico Europeo, nella valutazione dei requisiti positivi e negativi del consenso
tacito del titolare del marchio, che produce l’esaurimento del suo diritto esclusivo ai sensi dell'art. 7.1
della Direttiva 2008/95/CE .
T, costituendosi in giudizio, ha resistito al gravame chiedendo di confermare la sentenza
impugnata e di rigettare la domanda svolta in via subordinata da C, di rinvio pregiudiziale alla Corte
di Giustizia, con condanna dell’appellante - anche ex art. 96 commi 1 e 2 c.p.c. — alla rifusione degli
onorari, diritti e spese di lite, per entrambi i gradi di giudizio.
Ragioni di chiarezza espositiva e ordine logico suggeriscono di procedere alla trattazione dei motivi del
gravame nell'ordine che segue.
» L'art. 5 CPI, così come introdotto dall’ art. 7 della direttiva CEE 89/91 , prevede l'esaurimento
dei diritti del titolare del marchio una volta che i prodotti protetti da un diritto di proprietà
industriale siano stati messi in commercio dal titolare o con il suo consenso — non solo espresso
ma anche implicito - nel territorio dello Stato o nel territorio dello Spazio Economico Europeo
(SEE).
Il fatto che C non abbia dimostrato che il prodotto litigioso - scarponcino T
n. 10061 M - fosse stato a lei distribuito da una società collegata a T, e quindi
immesso nel mercato europeo con il consenso espresso del titolare del marchio, è incontestato.
È stata, invece, oggetto di contestazione, in primo grado e poi in appello, la questione inerente
la prova del consenso implicito.
In particolare, l'appello ruota intorno alla prova del consenso
implicito rispetto, sia all’assetto degli oneri probatori, sia alle circostanze per le quali
l’appellante avrebbe potuto legittimamente dedurre il consenso.
Il Tribunale, sul tema concernente l’onere della prova del consenso, richiamando la
giurisprudenza della Corte di Giustizia (C-244/00, VD ), ha affermato che questo non
può essere presunto e l’onere di provarlo spetta in via generale all’operatore che ne invochi
l’esistenza, a meno che sussista un rischio concreto di compartimentazione dei mercati
nazionali.
Orbene, la Corte europea aveva ravvisato tale rischio nel caso in cui il titolare del
marchio commercializzasse i suoi prodotti all’interno del SEE mediante un sistema di
distribuzione esclusiva.
Tale sistema implica per ogni area determinata (nel caso VD,
ogni Stato membro) un solo distributore esclusivo ed importatore generale, il quale è
contrattualmente obbligato a non alienare tali prodotti a intermediari per la
commercializzazione degli stessi al di fuori della zona attribuitagli.
Nel caso VD, il
convenuto (L) aveva commercializzato i prodotti litigiosi in Germania senza acquistarli
da VD, distributore esclusivo del marchio Stussy nello stato tedesco.
Il principio
comunitario della libera circolazione delle merci avrebbe potuto, pertanto, venir facilmente
violato dal titolare del marchio (S) in quanto, una volta che l’operatore convenuto
(L) avesse fornito la prova anche solo del luogo in cui aveva acquistato i prodotti,
immessi segretamente in uno dei territori del mercato europeo dal titolare del marchio,
quest’ultimo avrebbe facilmente potuto continuare ad ostacolare la commercializzazione
all’interno di tutto lo spazio SEE dei prodotti acquistati, eliminando di sua iniziativa la
possibilità che il fornitore del luogo individuato, facente parte della catena distributiva
esclusiva, continuasse ad approvvigionare in futuro di quei beni il convenuto.
Per queste
ragioni, la Corte di Giustizia, ravvisando la necessità di tutelare la libera circolazione delle
merci tra gli Stati comunitari, in quel caso aveva giustamente deciso di addossare al titolare del
marchio l’onere di provare che i prodotti fossero stati immessi in commercio da lui stesso o con
il suo consenso esclusivamente fuori dallo spazio economico europeo.
Solo dopo il terzo
avrebbe dovuto fornire la prova dell’esistenza del consenso del titolare alla successiva
commercializzazione dei prodotti in territorio comunitario.
Alla luce delle considerazioni svolte, il Tribunale, nel caso de gua, ha correttamente ritenuto di '
non spostare sul titolare del marchio l’onore di provare il mancato consenso, posto che il
sistema di distribuzione adottato da T non è esclusivo ma selettivo, avvalendosi la
stessa di negozi di distributori autorizzati e di punti vendita monomarca operanti senza vincoli
di area nello spazio SEE.
Il collegio ritiene corretta la decisione presa dal giudice di prime cure non solo perché la stessa
era conforme alla decisione della Corte di Giustizia, la quale aveva affermato l’inversione
dell’onere della prova, ravvisando il rischio di compartimentazione dei mercati nazionali, nel
diverso caso in cui il sistema distributivo era esclusivo, ma anche perché, nel caso in esame,
adottando un sistema distributivo selettivo T non avrebbe potuto mettere
concretamente in pericolo il principio della libera circolazione delle merci, posto che i
rivenditori, quali C, possono fornirsi da distributori dislocati nei vari paesi europei.
In altri
termini, se T avesse voluto vendere lo scarponcino litigioso solo in un territorio del
SEE (in violazione dell'art. 5 CPI), avrebbe organizzato la distribuzione diversamente.
Adottando, infatti, un sistema di distribuzione selettiva risulta molto più difficile per il titolare
del marchio: (i) non solo capire quale sia il distributore “traditore”, ossia colui che
disattendendo l’ordine del titolare del marchio di distribuire il prodotto solo su una determinata
area, lo distribuisce anche a fornitori esterni; (ii) ma anche ottenere una ricerca di mercato che
evidenzi profili di convenienza nel vendere il prodotto solo in quel territorio.
Precisamente, quel che s'intende rilevare è che il titolare del marchio, avvalendosi di un sistema di distribuzione
esclusivo, esercita un forte controllo nella distribuzione della merce, tale per cui (i) per
rintracciare il distributore “traditore” è sufficiente identificare il luogo del primo fornitore (se il
fornitore intermediario è inglese è facile che il distributore esclusivo traditore sia quello
inglese); (ii) è possibile una ricerca di marketing più efficace rispetto a quando venditori e,
quindi, consumatori, attraverso un sistema di distribuzione selettivo, possono essere forniti da
distributori dislocati in vari paesi.
La Corte ritiene che nel caso di specie non vi siano ragioni di rinvio pregiudiziale alla Corte di
Giustizia in ordine all’inversione dell’onere della prova.
Infatti, alla luce delle considerazioni
svolte al punto precedente, in presenza del sistema distributivo adottato da T il
rischio di compartimentazione dei mercati nazionali, presupposto per l’inversione, è da ritenersi
inesistente diversamente che nel caso VD, dove invece tale rischio era concreto.
Ciò chiarito, è necessario capire se il consenso implicito potesse essere legittimamente dedotto
dall’appellante, ovvero se la scelta di T di non distribuire nello spazio SEE la taglia
media dello scarponcino rispondesse ad un interesse meritevole di tutela, tale per cui C
avrebbe dovuto essere maggiormente diligente nel controllare la legittimità dello scarponcino
ordinato e poi commercializzato.
Parte appellante ha censurato la sentenza di primo grado sul punto, sostenendo che il consenso
implicito sarebbe stato desumibile da indizi gravi, precisi e concordanti.
In particolare, C
ha eccepito che i prodotti per i quali è consentita l'importazione nello spazio europeo e quelli
per i quali sarebbe vietata sarebbero del tutto identici, non presentando alcun profilo
qualitativamente diverso: entrambe le calzature — modello taglia large e modello taglia media —
provengono invero dalla Repubblica Domenicana, senza alcuna differenza nell’imballaggio
ovvero nella confezione ovvero ancora nel codice (T n. 10061),
L’appellante ha, così, argomentato:
resta assodato che l’onere probatorio non si esaurisce nella dimostrazione di avere
acquistato il prodotto da un rivenditore operante all’interno dell'ambito comunitario,
occorrendo altresì la prova che costui abbia a sua volta acquistato la merce dal titolare del
marchio o da un soggetto a ciò abilitato nello spazio SEE;
resta altresì fermo che il consenso implicito, desumibile dal giudice nazionale da elementi e
circostanze anteriori, concomitanti o posteriori all'immissione in commercio al di fuori del
SEE (sentenza 20.9.2001 Corte di Giustizia, ZD e LS), non può
risultare:
a) dalla mancata comunicazione da parte del titolare a tutti gli acquirenti successivi dei
prodotti immessi in commercio in territorio extracomunitario della sua opposizione
all'immissione nello spazio SEE;
b) dalla mancata indicazione sui prodotti del divieto alla commercializzazione nel mercato
europeo;
c) dalla cessione dei prodotti contrassegnati dal marchio litigioso a cura del titolare in virtù di
accordi contrattuali senza imporre restrizione in mancanza delle quali, alla luce della legge
applicabile al contratto, sia previsto un diritto illimitato alla vendita anche nello spazio
europeo;
ciò nonostante, C avrebbe avuto tutto il diritto di ritenere che lo scarponcino potesse
essere commercializzato anche in Europa, posto che non sarebbero ravvisabili ragioni
stilistiche, commerciali ovvero socio-culturali tali da indurre T a destinare a
territori diversi tra di loro un’identica calzatura, solamente e marginalmente differenziata
nella taglia del piede.
Il collegio concorda con il giudice di prime cure laddove ha ritenuto superflue tali eccezioni
posto che la Corte di Giustizia (Corte di Giustizia, CE, 1.7.1999, in causa C-173/98, in GADI
4046/02), sul quesito “se sussista il consenso ai sensi dell' art. 7 della direttiva CEE 89/91 quando il titolare del marchio ha dato il proprio consenso alla commercializzazione nel SEE di
prodotti identici o simili a quelli per i quali viene invocato l'esaurimento, o se, al contrario, il
consenso debba riguardare ogni esemplare del prodotto per il quale viene invocato” ha
espressamente stabilito che “l'esaurimento dei diritti conferiti dal marchio ha luogo
solamente se i prodotti sono stati messi in commercio nella Comunità; tale disposizione
non attribuisce agli Stati membri la possibilità di stabilire nel proprio ordinamento
nazionale l’esaurimento dei diritti conferiti dal marchio per prodotti messi in
commercio in paesi terzi”, inoltre “per aversi consenso ai sensi dell’art. 7, n. 1. della
direttiva comunitaria, lo stesso deve essere dato per ogni esemplare del prodotto per il
quale l'esaurimento è invocato”.
La Corte di Giustizia ha affermato che solo in questo
modo “i/ titolare del marchio può controllare la prima immissione sul mercato nel SEE
dei prodotti contrassegnati dal marchio” (cfr. punto 21 causa C-173/98, in GADI
4046/02).
Tale protezione, prevista dall’art. 7 della direttiva e anche dall’art. 5 CPI, verrebbe
meno se fosse sufficiente che il titolare del diritto di marchio avesse dato il proprio
consenso all’immissione sul mercato in tale territorio di prodotti identici o simili a
quelli per i quali l'esaurimento è invocato.
Nel caso di specie, l’elemento distintivo tra il prodotto soggetto all’esaurimento
comunitario (scarponcino T n. 10061 W) e quello per il quale è stato
invocato l’esaurimento comunitario (scarponcino T n. 10061 M) è la
taglia.
Ebbene, quest’ultima costituisce proprio uno di quei requisiti che possono
qualificare il prodotto come diverso seppur il modello sia identico e, pertanto, fornire la
prova che il prodotto fosse destinato ad un mercato di commercializzazione al di fuori dello
Spazio Economico Europeo.
Quindi, se da un punto di vista oggettivo non poteva essere dedotto il consenso implicito
alla commercializzazione del prodotto litigioso nel SEE, C è responsabile per non
avere controllato la legittimità della commercializzazione nel SEE di quel modello.
La regola e le modalità di distribuzione della catena T potevano essere
agevolmente conosciute da C, esperto operatore del settore, dotato di un’articolata
struttura commerciale.
Anche in questo caso, alla luce delle argomentazioni svolte, la Corte ritiene chi non vi
siano ragioni di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia la quale, nel caso GADI,
aveva risolto il quesito qui nuovamente riproposto.
La sentenza appellata deve quindi essere confermata. In ordine alla domanda di condanna proposta da T nei confronti di C ex art. 96
c.p.c., il collegio, vista la complessità delle questioni trattate, ritiene non sussistano i
presupposti della responsabilità aggravata.
Le spese di lite di questo grado del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come in
dispositivo ex D.M. n. 55 del 2014 .
Per questi motivi
La Corte d'Appello, definitivamente pronunciando sull'appello proposto avverso la sentenza del
Tribunale di Milano n. 8216/2013 del 18/04/2013, pubblicata in data 11/06/2013 , ogni contraria
istanza, eccezione e deduzione disattesa, così decide:
rigetta l'appello proposto da CS S.p.a. e integralmente conferma la sentenza
gravata;
condanna CS S.p.a. a rimborsare all’appellata TTC le
spese ulteriori del grado, liquidate ex D.M. 19/3/2014 n. 55 in complessivi Euro 13.560,00
oltre accessori tariffari, previdenziali e fiscali di legge.
Così deciso in Milano, nella camera di consiglio di questa Corte in data 18/02/2015 Il Consigliere
giu3